Autore: Francesca Todeschini

Come lavoro e perchè

Credo profondamente che in tutte le esperienze individuali ci sia qualcosa di comune e che se questo qualcosa viene condiviso, il bene comune aumenta così come la consapevolezza reciproca.

Approfondisco lo studio del funzionamento e delle competenze necessarie all’uso e diffusione degli strumenti di risoluzione alternativa ai conflitti secondo la teoria avanzata della visione sistemica promossa dal fisico e teorico della Systems View of Life di Fritjof Capra. 

Il conflitto fa parte della comunicazione e servono persone che non ne abbiano paura. Aiuto le persone a divenire consapevoli di cosa impedisce il naturale fluire delle relazioni personali e professionali e a rinvenire accordi efficaci nel tempo.

Lavoro per il supporto delle relazioni, la creazione di valore attraverso l’implementazione delle competenze trasversali, la gestione e prevenzione del conflitto famigliare e aziendale, senza perdere di vista l’ambito legale-giuridico.

L’incarico che ricevo si svolge al fianco di chi vuole ricevere aiuto per gestire le relazioni personali e commerciali, e gli eventuali conflitti da negoziare o rinegoziare, in situazioni complesse tipo organizzativo, professionale o personale.


La visione sistemica della complessità insegna che i sistemi complessi – il singolo individuo come l’azienda – sono organismi viventi, che evolvono costantemente in modi imprevedibili in ragione della molteplicità dei fattori implicati; ciò nonostante, è possibile guardare alle direzioni cui tendono queste organizzazioni e aggiornare il contesto, stando al passo con la loro evoluzione lasciando perdere la oramai sopravvalutata necessità e presunzione di trovare soluzioni per sempre adatte a risolvere e gestire le situazioni complesse.

Accordi di interdipendenza Generativi

Ho partecipato, di recente, ad un incontro organizzato da Benefit Innovation e ManagerItalia in tema di ADIG – Accordi di Interdipendenza Generativi.

Ho ascoltato con grande interesse le esposizioni degli organizzatori e intervistati, tra i quali Manuela Pagani e Paolo Fedi di Benefit Innovation, Marinella de Simone e Dario Simoncini del Complexity Institute, fortemente e brillantemente incentrate sulla necessità di diventare consapevoli della nostra interdipendenza, per intessere e sviluppare relazioni personali e commerciali al servizio del bene comune.

L’accordo di interdipendenza generativo, figlio dell’accordo di interdipendenza ideato dall’imprenditore Francesco Mondora, si fonda sulla premessa del riconoscimento della necessità, per non dire l’urgenza, di vedere l’impresa come sistema vivente e affiancare, allo scopo di profitto, con pari intenzione, lo scopo di contribuire al bene comune e la disponibilità reciproca a fare impresa in questa direzione.

La negoziazione dell’accordo avviene quindi con la chiara previsione dell’assunzione, da una parte, di una obbligo una fornitura/acquisto di beni o servizi verso l’impegno, dall’altra, al miglioramento della propria filiera di produzione in ottica sostenibile, alla partecipazione a momenti formativi sul tema del bene comune e, infine, alla conclusione di almeno un altro accordo generativo con altro soggetto.

Questa catena di valore è generativa perchè dall’incontro della volontà di due parti emerge, come bene indipendente e interdipendente un sano e saldo impegno commerciale che volutamente si pone come parallelo al business as usual.

La responsabilità sociale, quindi, diventa da fattore di crescita reciproca verso l’interno e contemporaneamente una leva per il miglioramento verso l’esterno: un rinnovo continuo e potenzialmente infinito.

Gli accordi generativi si pongono perfettamente in linea con l’approccio sistemico che promuove l’analisi dei principali temi sulla sostenibilità ambientale, sociale ed economica, proponendo soluzioni su più piani: a problemi interdipendenti, vengono create soluzioni interdipendenti.

Viene così valorizzata l’innata capacità di impresa creativa dell’essere umano consapevole dell’importanza di comprendere la complessità del contesto in cui opera.

L’innesco di consapevolezza e del contesto è fondamentale se vogliamo creare, o generare, un impatto sociale efficace e duraturo nel tempo.

Si pone una grande sfida per tutti i professionisti e imprenditori sul tema della sostenibilità che non può più essere ignorata o solo guardata, ma deve essere riempita di contenuti e azioni concrete di valore, come tante stelle che brillano nel cielo solo se accese insieme.

A presto con nuovi sviluppi sul tema.

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Accordi generativi

Confrontarsi con la realtà sociale, sia che si tratti di una relazione commerciale tra due soggetti, che della stipula di un contratto progetto di sviluppo territoriale, ci offre la possibilità di sperimentare concretamente il grado di consapevolezza delle parti coinvolte nella relazione stessa.

La consapevolezza che qui ci interessa non riguarda l’aspetto tecnico delle conoscenze e competenze di tipo commerciale, giuridico o progettuale che si è chiamati necessariamente a dispiegare sul campo – qualcosa che ha contorni ben definiti, che è normato e codificato, che ha un carattere asettico, prevedibile, abiotico. Riguarda piuttosto le connessioni che mettono in rapporto un attore sociale con l’altro su piani non sempre immediatamente percepibili. Possono essere connessioni che già esistono ma non sono manifeste oppure sono correlazioni potenziali in attesa di uno spazio di possibilità, un enabling environment che offra loro l’opportunità di venire alla luce.

Sviluppare un senso sottile per queste connessioni ci porta a sperimentare la comunità di cui siamo parte come una realtà vivente che reagisce beneficamente a ciò che di intangibile le portiamo incontro.

Il sintonizzarsi di cuori diversi ad una medesima realtà, è l’ac-cordarsi e l’accordo può essere uno strumento per sancire anche formalmente la qualità della relazione già maturata o che si desidera sviluppare assieme.

E’ essenziale tuttavia che tali accordi incarnino innanzitutto il concetto di generatività. Da un punto di vista etimologico, infatti, “la radice latina gen che si trova nel termine “generare” è rinvenibile in tutta una serie di termini quali ‘generosità’, ‘genialità’, ‘genitore’, ‘genesi’, ‘gente’, ‘genuino, ‘originale, ‘ingegno’, e esprime l’idea di qualcosa che ‘viene alla luce’, ‘germoglia’ e che è capace di durare nel tempo lasciando un segno, fino a creare una tradizione (come nel caso di una gentes, cioè di una famiglia)”[1] Lo ius gentium nel diritto romano era il complesso delle norme giuridiche fondate sulla ragione naturale (naturalis ratio) comune a tutti i popoli (gentes) che avevano raggiunto un pari grado di sviluppo. Questo significato antico risuona con la visione sistemica che anima il nostro approccio alla vita in quanto chiave di lettura per sviluppare comportamenti e relativi accordi che siano più adeguati possibile al contesto attuale e, quindi, maggiormente efficaci.

Inoltre, la stessa parola “felicità” deriva dal latino ‘fecundus’ che indica appunto la capacità della vita di generare altra vita. ‘Ciò che è vivo dà frutto’, scriveva Schelling. E per capire se una pianta è viva o morta guardiamo se anche da rami apparentemente secchi riesce a spuntare qualche nuovo germoglio”[2]. Secondo la chiave di lettura offerta dall’approccio sistemico, la natura è immanentemente rigenerativa in quanto eco-sistema fatto di altri sistemi autopoietici e auto-organizzati.

Ancora più espressiva e in risonanza con il nostro approccio è il verbo greco γίγνομαι (gignomai) che può significare “nascere da”, quando regge il genitivo, “essere“, quando sostituisce il relativo ausiliario, ‘far essere, ‘far accadere’ ma anche “diventare”. Da questo verbo deriva il latino –gnosco (‘cognosco’, conosco) e il fratello inglese to know. Il riferimento è quindi alla capacità, tipicamente umana, di mettere al mondo, di creare e di conoscere; tutte azioni che si fanno insieme.

Ben al di là dell’aspetto biologico (il mettere al mondo un figlio) “generare” è espressione di quella energia interna che apre le persone al mondo e agli altri, così da metterle in grado di agire efficacemente e contribuire creativamente a ciò che le circonda. Facendo essere, la generatività ci fa essere, ci fa creare e ci fa anche conoscere perché ci mette in contatto.

La generatività presuppone la capacità di sentire il mondo di interazioni che ci coinvolge e si sostanzia di azioni trasformative che ci rendono le persone capaci di gestire una libertà che non è consumo individualizzato, ma opera inter-relazionale.

La scienza della complessità può insegnarci che come partecipanti a un sistema dinamico complesso il nostro obiettivo deve essere la partecipazione appropriata, non la previsione e il controllo (Goodwin, 1999a). Il modo migliore per imparare a partecipare in modo appropriato è prestare maggiore attenzione alle relazioni e alle interazioni sistemiche, mirare a sostenere la resilienza e la salute dell’intero sistema, favorire la diversità e le ridondanze a scale multiple, e facilitare l’emergere positivo attraverso l’attenzione alla qualità delle connessioni e dei flussi di informazioni nel sistema.

La generatività è dunque un’azione consapevole, diretta a uno scopo liberamente scelto, rispettosa del contesto e aperta al futuro. Una cultura umana rigenerativa è sana, resiliente e adattabile; si prende cura del pianeta e della vita nella consapevolezza che questo è il modo più efficace per creare un futuro prospero per tutta l’umanità.

Diventiamo quindi consapevoli che la collaborazione crea ricchezza e dalla collaborazione emergono idee e azioni che in precedenza non appartenevano individualmente a nessuno: il pensiero emergente è una consapevolezza e conoscenza nuova che con il tempo diventa appartenenza di tutti.

In quest’ottica i sistemi viventi suggeriscono nuovi modi di progettare e innovare nonché creare condizioni che siano ‘conduttrici di vita’. Ci indicano anche e in quale modo si possono concludere accordi efficaci in quanto generativi e rigenerativi.

Accanto alla generatività, acquisisce particolare importanza il concetto di  ecosistemicità nel momento in cui ci volgiamo verso il più grande sistema di relazioni che ci riguarda in quanto siamo tutti interconnessi. Quando parliamo di ecosistemicità ci riferiamo a sistemi aperti, auto-organizzanti ed autopoietici. Questi sistemi sono:

  • formati da una componente abiotica (business as usual) e da una componente biotica (generativa);
  • interconnessi con altri ecosistemi, assieme ai quali formano dei macro-ecosistemi;
  • che tendono a raggiungere e a mantenere nel tempo un equilibrio dinamico e quindi una particolare stabilità evolvente; che reagiscono al cambiamento sollecitato.

L’apprendimento di questi principi consente un approccio che si focalizzi sulle relazioni funzionali e sui processi all’interno degli ecosistemi e che utilizzi pratiche di gestione adattiva.

Ma come enfatizzare e promuovere la generatività e l’approccio ecosistemico attraverso degli accordi generici tra soggetti i più diversi e in contesti del tutto eterogenei?

Ad esempio per:

  • sostenere una mediazione per gestire conflitti personali o commerciali tra individui, gruppi o sistemi connessi;
  • rigenerare una relazione business già esistente incorporandovi una intenzione nuova condivisa tra le parti che superi la relazione attuale;
  • promuovere relazioni tra i diversi attori di un progetto territoriale multi-stakeholder per portare ad evidenza della comunità il capitale intangibile generato;
  • promuovere accordi per la gestione delle pubbliche amministrazioni come scuole e università.

La strada che stiamo seguendo prevede lo sviluppo di un modello di accordo –  che provvisoriamente ha preso il nome di Accordo Generativo – che nella sua struttura sia “contenitore” dei due principali concetti sistemici che informano tutte le derivazioni specifiche – “generatività” ed “ecosistemicità” – e che risulti aperto ad ulteriori estensioni e specializzazioni.

Ad esempio, nella sua forma base, AG è essenzialmente un gentlement agreement che possiede una determinata struttura, ha il valore legale di una lettera d’intenti e offre già a questo livello un template che può essere immediatamente utilizzato.

Da questa forma base possono discendere varie specializzazioni o caratterizzazioni che possono ereditate – tutte o in parte – dalle implementazioni concrete che ne derivano. Ad esempio si possono esplorare ulteriormente le possibilità generative rimanendo all’interno di un gentlement agreement oppure si può desiderare di ‘esportare’ generatività in accordi più cogenti dal punto di vista legale, in veri e propri contratti.

Abbiamo quindi immaginato e co-creato la filogenesi degli AG, includendo e integrando l’aspetto contrattuale strettamente inteso, che pure esiste ed è indissolubilmente legato al fare business, con la finalità di bene comune per andare oltre l’evocazione del principio retorico, oltre i torti e le ragioni, per il bene comune.

Ne è emerso, secondo un processo tipico della complessità, un modello astratto di AG con le sue possibili derivazioni concrete per servire bisogni generativi altrettanto concreti. Riteniamo che non sia possibile individuare a priori tutte le interconnessioni perché crediamo fortemente che per quanto una astrazione sia necessaria, ogni accordo comporta un adattamento al caso concreto.

In conclusione, pur consapevoli che i fenomeni complessi non prevedono ricette o soluzioni che una volta adottate possano garantire sempre l’ottenimento del risultato, siamo consapevoli che una visione di complessità richiede che le strategie di azione e i percorsi di apprendimento vanno rivisti, così come la capacità di stringere accordi commerciali efficaci e duraturi nel tempo.

Vogliamo quindi promuovere scelte soggettive di senso, proiettare l’azione verso il futuro e aggiungere valore sociale. Per queste ragioni, riteniamo che un accordo che contenga questi principi e sia così inteso possa diventare un potente strumento per contribuire a dare voce ai contesti professionali e organizzativi che scelgono di dare valore alle relazioni personali e commerciali e che operano in ottica di un apprendimento continuo co-creato con intelligenza flessibile, che osservano e connettono le cose insieme, aumentano il numero di domande generative, da porsi in ottica ecosistemica.

Francesca Todeschini, Avvocato consulente di gestione dei conflitti in contesti di complessità, Mediatore civile e commerciale, Counselor sistemico.

Aurelio Riccioli, ingegnere informatico, consulente IMO, co-founder della community People R-Evolution.

Bibliografia di riferimento:

Mauro Magatti, suo contributo nel volume “Da Simmel a Baumann La sociologia come scienza della libertà”, Mimesis Edizioni 2020.

Fritjof Capra, “Vita e natura. Una visione sistemica” Aboca Edizioni, 2014.

Link da cui è stata estratta l’etimologia della parola “generatività”:

http://generativita.it/it/generativita/

Sul tema dell’approccio ecosistemico in azione:

https://it.wikipedia.org/wiki/Carta_della_Terra

https://designforsustainability.medium.com/?p=4abb3c78e68b

e Appunti personali dal corso Complexity Management – Executive Master organizzato dal Complexity Institute 2021-2022.

 

 

 

 

 

Buone pratiche sistemiche per relazioni rigenerative

L’approccio sistemico offre una chiave di lettura del funzionamento dei sistemi organizzativi e consente la creazioni di relazioni rigenerative in quanto basate sul modello utilizzato in natura dai sistemi viventi. L’approccio sistemico, in questo senso, diventa una scienza delle relazioni rigenerative.

La comprensione della necessità di un cambiamento di paradigma, da un sistema basato su una crescita quantitativa e degenerativa delle relazioni, a uno fondato sulla crescita qualitativa, passa infatti attraverso le relazioni rigenerative che potrei definire tali in quanto basate sui c.d. indicatori sistemici: complessità, interconnessione e interdipendenza, auto-organizzazione e emergentismo.

Tutti i sistemi viventi sono accomunati dal medesimo funzionamento secondo processi non lineari e una struttura di relazioni a rete: porre l’accento su “processo” e “struttura”, consente di superare la visione dualistica e rinvenire soluzioni efficaci e durature nel tempo rispetto alla gestione delle relazioni, dentro e fuori l’azienda, nonché di pianificare modalità di prevenzione e buone pratiche centrate sulla qualità delle relazioni: perché le proprietà del tutto sono di più delle proprietà delle singole parti.

L’idea che l’essere umano sia imprevedibile, oltre che essere una affermazione non del tutto corretta, è il malinteso di fondo sul quale, consapevolmente o no, sono state costruite numerose teorie e modelli predittivi, con l’intento di fornire risposte al bisogno di dominare e esercitare il potere sull’uomo e sui suoi affari economici, a scapito del benessere sociale.

Organizzazione e controllo non sono la stessa cosa.
Quando si parla cambiamento o riorganizzazione, in realtà più che con il cambiamento, si ha a che fare con gli effetti collaterali di esso, dal momento che si pensa di dover dirigere e gestire le persone per meglio controllarle nell’esecuzione dei compiti loro assegnati.
Focalizzarsi sui processi e sulle strutture consente di usufruire di quel “valore” aggiunto del tutto, che è più della somma delle sue parti. Il conflitto non è semplicemente un fenomeno sociale, ma un fenomeno umano, fatto di processi e reti interconnessi e inseparabili.

Nella gestione dei conflitti secondo la visione sistemica ciò che funziona è che non si punta all’affermazione di principi convalidati in una teoria “da accettarsi per definizione”, ma che si propone un atto di comprensione: è proprio quando si ha comprensione del funzionamento di qualcosa che si ha a che fare con un processo che comporta esperienza rigenerativa.

Con l’effetto di liberare valore da impiegare in altri progetti che possano incrementare la produttività.

Lavorare con la complessità è semplice

 

Scopo, visione, strategia e pianificazione per definire la direzione delle organizzazioni vengono solitamente basati e costruiti su esperienze del passato che non si vogliono ripetere e ipotesi sul futuro che si intende raggiungere: questi approcci possono funzionare bene con questioni di natura lineare, di causa-effetto.
Questi approcci tuttavia non funzionano quando si lavora con strutture e processi organizzati in rete che, per natura, sono complessi e comportano una visione su più piani di interazione.

In questi casi, quando cioè si rende necessario vedere l’interconnessione delle varie decisioni e comparti dell’impresa organizzata, e si intende raggiungere o consolidare obiettivi più efficaci nel tempo, serve guardare ai processi e alle interazioni.

Durante la fase iniziale di questo tipo di lavoro, fatto di anche di analisi e mappatura, può accadere la tentazione di tornare indietro alla visione lineare causa effetto, perché sembra consentire il controllo della situazione. Organizzazione e controllo, però, sono modelli distinti e corrispondo a visioni diverse della vita. Anzi, la seconda, non corrisponde alla realtà della composizione dei sistemi viventi che sono innatamente organizzati in rete e autogeneranti.

Lavorare con la complessità è semplice perché la mappatura della rete, consente di facilitare l’emergere di idee e soluzioni ulteriori, mantenendo costante la possibilità per tutti di partecipare al processo.

Si tratta di una qualità essenziale per la leadership sostenibile come richiesta oggi nei processi che hanno a che fare con la complessità e per quegli imprese che nel proprio statuto costitutivo hanno come obiettivo la sostenibilità sociale e relazionale.

Lavorare con le relazioni/interazioni/interrelazioni dei processi porta a sviluppare una organizzazione efficiente in quanto costantemente partecipata e pronta a gestire l’adattamento continuo alla natura stessa del sistema e alla sua interdipendenza interno/esterno.

In questo senso le organizzazioni sono sistemi viventi autorganizzanti e positivamente sensibili alla condivisione a più livelli, anche quando non tutti i comparti possono partecipare alla decisione finale.

L’organizzazione è costantemente in questo processo di cambiamento: abituarsi a conoscerlo e sentirlo è importante tanto quanto osservare che il solo “dirigere e controllare”, alla lunga, non paga: organizzazione e controllo sono due processi diversi e diverse sono le reazioni delle sistemi viventi a queste modalità.

Condurre il cambiamento nel facilitare la complessità è una sfida attuale che richiede fiducia nelle persone e nelle loro interazioni, sapendo che il lavoro da fare consiste nel preparare il terreno, nell’organizzare il contesto, nel formare le persone.

– Vedere l’organizzazione come un sistema vivente;
– Identificare il cambiamento con il paradigma della leadership sostenibile e con l’aggiornamento dei processi comunicativi;
– Favorire l’intelligenza collettiva;
– Ascoltare e integrare le diverse visioni e fare leva sui conflitti;
– Facilitare l’autorganizzazione e far emergere l’innovazione.

Sono queste alcune delle principali attività della leadership sostenibile che ha compreso che la vita aziendale è organizzata in reti, è innatamente rigenerativa e creativa.

La saggezza del sistema

Non c’è più di un modo per dirlo, ma è facile da dire: il mondo è un sistema complesso, non è fatto da interazioni lineari e regole immutabili ma cambiamenti continui secondo modalità di auto-organizzazione e co-evoluzione che esistono da sempre.

Da questo discende e si crea diversità che rende tutto (e tutti!) più interessante.

Tuttavia, c’è qualcosa dentro di ciascuno che vorrebbe che le cose fossero organizzate su un piano lineare, dritto, con un inizio e una fine, invece che su una linea curva, in parte ricorrente e in parte modificabile: riconoscere l’imprescindibile e umano bisogno di certezza e uniformità apre la visione alla possibilità di vedere che c’è uno spazio interiore (e esteriore) che ha la capacità di sentire che la complessità ci appartiene, che noi siamo il prodotto di sistemi di feedback interdipendenti, che riconosce la bellezza nei fenomeni irregolari e asimmetrici.

È dunque un campo di consapevolezza che portiamo nel campo lavorativo e nelle interazioni personali ed è tempo di accorgerci.

La consapevolezza del sistema ci insegna a restare pronti al cambiamento (e alla sorpresa!) e a considerare come incompleti i modelli mentali e gli strumenti degli attrezzi che usiamo, spesso inconsapevolmente. Ci insegna che esiste l’imprevedibile e, se c’è qualcosa che non sappiamo, il migliore approccio è non pretendere di avere il controllo totale della situazione: mappare ciò che accade, osservarne il funzionamento, ammettere gli errori e condividere le idee e assumersi la responsabilità di cosa muove dentro, prima che fuori.

La saggezza del sistema farà il resto: intervenire ciecamente o con la pretesa della direzione, infatti, blocca l’innata capacità del sistema, e delle relazioni tra i suoi componenti, di auto-generarsi e auto-organizzarsi.

Il sistema apprende e insegna: le buone pratiche si rinforzano da sé, se viste. Essere al servizio del sistema non è un modello che si studia, ma una visione che si apprende sperimentando e ponendo attenzione al campo generato da sé stessi.

Di seguito riporto un esempio di come in una impresa sono stati recepiti e comunicati gli input emersi dalla visione co-costruita e che hanno guidato la progettazione e lo sviluppo di attività concrete di organizzazione e formazione per tutti i portatori di interessi interni e esterni all’azienda.

Per scaricare clicca Ottieni il ritmo del sistema

Una prospettiva sistemica per relazioni rigenerate

Mi occupo di gestione delle relazioni e di diritto sistemicamente orientati.
Ho sperimentato che lo sviluppo delle relazioni personali e professionali in azienda e tra privati dipende anche dal sapere analizzare e organizzare il principio racchiuso nella massima “il tutto è più della somma delle sue parti”.
Le relazioni sostenibili sono quelle maggiormente orientate ai principi della teoria dei sistemi ed in particolare all’innata capacità di conservare l’autopoiesi.

Per saperne di più   clicca qui articolo sul Diritto ad orientamento sistemico.

 

Riprendere equilibrio con la mediazione

I conflitti, dal mero disagio alle forme di più rilevante incompresione, fanno parte delle relazioni umane.
Si può imparare a stare in relazione conoscendo e comprendendo, anche se non condividendo, le posizioni altrui che nella maggior parte dei casi sono il risultato di convizioni ed esperienze personali piuttosto che di volontà di fare del male all’altro.

Siamo poco abituati ad ascoltarci ed ad ascoltare perchè sovrastati dal bisongo di approvazione personale e di conferma delle personali convinzioni.

Ma sappiamo veramente quali sono le nostre convinzioni personali ? Sappiamo come influiscono nei nostri rapporti personali o lavorativi ? Abbiamo idea di come comunichiamo e (non) ascoltiamo ?

Un buon mediatore è in grado di riaccendere il focus sui bisogni sottesi alle contrapposte posizioni e aiutare le persone a chiarirsi e, nel caso sia possibile, a mantenere relazioni più equilibrate.

Mediare non significa trovare un accordo che accontenti un po’ tutti. Mediare non significa trovare un compromesso. Mediare singifica riuscire a trovare una soluzione che risponda ai diversi bisogni di ciascuno.
Mediare significa considerare la relazione.

Costruire un contratto, un testamento o un patto di famiglia normalmente consiste nell’utilizzare uno strumento che guarda al futuro ma che quando viene messo in pratica si rivolge ad un passato e nel frattempo sono cambiate regole, posizioni e forse interessi reciproci. Cosa può aggiungersi ad un contratto, un testamento o un patto di famiglia nell’ambito del passaggio generazionale che possa maggiormente assicurare un durata effettiva nel tempo ?
Considerare la relazione. La relazione può entrare nel testo commerciale o successorio o negoziale.
Mediare la conclusione di questo tipo di accordi consente di scegliere il tipo di relazione che vogliamo con l’altra parte o con il nostro famigliare anche in futuro e consente di prevedere già la modalità con la quale gestire eventuali disaccordi che dovesserero ulteriorimente insorgere.

Le relazioni che vogliamo

Sono una mamma di un bambino di nove anni (ora quasi diciotto!) e sono convinta che crescere un figlio possa essere un’esperienza ancor più meravigliosa se maggiormente consapevole dell’esistenza e funzionamento di alcune dinamiche relazionali.

Spesso noi genitori confidiamo in qualcuno o qualcosa, non importa se più o meno esperto e interessato di noi, che ci fornisca una serie di regole da seguire, che acconsentiamo ci venga presentato come il metodo efficace per crescere i nostri figli, come se si trattasse della miglior ricetta per la preparazione di un dolce. Con il risultato che, confusi nel bel mezzo del caos quotidiano, ci troviamo ad essere sballottati tra uno slogan e l’altro, o tra una teoria e l’altra, sentendoci il più delle volte impotenti per non aver raggiunto la tanto ambita e standardizzata idea del genitore perfetto. Con buona pace della serenità e armonia familiare e, complice il fedele compagno del senso di colpa galoppante, ci sentiamo sempre più insicuri e insoddisfatti e, più o meno consapevolmente, deleghiamo inesorabilmente la determinazione dell’armonia in famiglia ai nostri piccoli.

Ma allora, che fare? Si tratta, a mio parere, di aver voglia e coraggio di prendere in mano la situazione e di decidere che tipo di relazione vogliamo con i nostri figli.
Nella mia breve esperienza di mamma, ho imparato che regole uguali ed efficaci per tutti non esistono e neppure un ‘metodo efficace’ uguale per tutti. Il motivo é molto semplice: discutere in termini di ‘metodo’ rispetto all’educazione dei figli presuppone che il soggetto che ne risulta in qualche modo destinatario sia trattato o, peggio ancora, considerato, come un ‘oggetto’ e non, prima di tutto, come una persona. I nostri figli non sono e non devono essere l’oggetto di un metodo da applicare, ma persone trattate con pari dignità di quella che noi stessi vorremmo ricevere. Si tratta solo di considerarci da un altro punto di vista, di cambiare prospettiva smettendo di credere che sia il bambino il problema e assumendoci le nostre responsabilità e il nostro posto all’interno della relazione.

A questo punto, sorgo una domanda: quante volte al giorno capita di sentirsi frustrati e disorientati rispetto alle inattese o apparentemente capricciose richieste dei nostri piccoli?
Ebbene, a mio avviso, il solo fatto di sapere che i bambini non fanno capricci e non sono programmati per renderci la vita difficile, ma hanno tutto il desiderio di collaborare, consente di affrontare la situazione da un punto di vista molto diverso rispetto a quello di gestire un figlio ingestibile.
Sapere che in realtà il loro primario desiderio é quello di conoscerci e farsi conoscere da noi, non vi fa sentire già più sollevati ? E se poi consideriamo che dietro ogni loro richiesta si nascondono esclusivamente dei bisogni, più o meno profondi, di attenzione, conferma e amore, allora possiamo stare davvero tranquilli perché, sapendolo, potremo essere più ben disposti verso di loro e verso noi stessi, in occasione degli inevitabili conflitti quotidiani.

Il più delle volte, infatti, i bambini hanno ‘solo’ bisogno di essere riconosciuti nella loro individualità, di essere ‘visti’ per ciò che sono, per chi sono, e di potersi esprimere, sicuri che non verranno derisi, ridicolizzati o incompresi. Già questa comprensione aiuta notevolmente ad ampliare il nostro punto di vista che, di default, si presenta rigido, chiuso, sostanzialmente spesso prevenuto e impaurito.

Il modo in cui desideriamo che la nostra famiglia cresca, dipende solo da noi.
Tante delle risposte che stiamo cercando o che vorremmo ottenere sull’argomento si trovano nel nostro sistema famiglia, nella storia comune di ciascuno di noi. Così come per la reazione di coppia, tutto prende le mosse dalla relazione con noi stessi. Prima ancora, quindi, di esaminare il rapporto con i nostri figli, sarebbe opportuno avere il desiderio e la curiosità di indagare noi stessi, tenere conto che l’essere genitori ha anche fare prima di tutto con noi stessi, con la nostra storia famigliare e con le nostre esperienze di vita. E desiderare di saperne di più.

Si tratta, per cominciare, di provare a modificare la prospettiva con la quale, per tradizione o abitudine, approcciamo all’argomento ‘educazione’ provando a sentirlo come un nuovo cammino costellato di pazienza, amore e..tanta gioia, per scoprire che essere genitori consapevoli non solo é possibile, ma é anche un esperienza meravigliosa.
Non si tratterà di seguire, da domani, una nuova ricetta, ma, semmai, di imparare ad abituarsi a guardare alle cose con un sentire diverso. I nostri figli hanno pari dignità degli adulti che amiamo e non è per nulla necessario che ci prodighiamo a ‘insegnare’ loro l’educazione. Neppure dobbiamo essere loro amiconi o metterci al loro pari per carpire il loro apprezzamento e comprensione.

Quale reazione avviene dentro di sè, nel leggere questi concetti ?
Provando ad esprimerle si sentirà un energia diversa.

È molto semplice esprime questi concetti quanto difficile ricordarsene al momento opportuno. Quando un bambino si oppone, apparentemente, alle richieste del genitore che si sente subito frudtrato e super agitato per non fare tardi a scuola o al lavoro, provare a fermarsi un minuto, ad ascoltare le proprie frustrazioni e a considerare che il piccolo non sta in realtà ostacolando intenzionalmente i programmi, ma ha solo una esigenza, pari a quella dell’adulto, altrettanto importante e imprescindibile, che vuole solo essere ascoltata e condivisa.

Non concentrsi su come lo si convincerò a fare ciò che gli è stato chiesto, ma sull’ascolto di cosa accade, farà emergere la soluzione quasi da sé e, il più delle volte, proprio grazie alla sua collaborazione che nasce come reazione naturale al suo essersi visto e compreso.
Si tratta di un meccanismo simile a quello che valgono nella relazione di coppia. Più ci sentiamo ascoltati e capiti, più siamo disposti a venire in contro all’altro.
Con l’unica differenza, rilevante a mio avviso, che tra adulto e minore la responsabilità
della qualità della relazione resta solo ed esclusivamente in capo all’adulto. Ai figli, così come agli studenti da parte degli insegnanti, non va delegata tale responsabilità.
Capiterà addirittura di restare sorpresi nell’apprendere la loro innata capacità di inventiva e risolutiva delle difficoltà quotidiane.

A mio avviso, non tenere conto di questo aspetto potrà anche risultate apparentemente efficace nell’immediato, ma risulterà alla lunga deleterio per la loro crescita e, conseguentemente, per l’armonia famigliare.

I conflitti sono una parte imprescindibile di tutti i rapporti famigliari, e non solo.
Gli esperti da tempo ci dicono che le famiglie che sperimentano maggiormente l’armonia al loro interno, e nelle quali i componenti si sentono più a proprio agio, sono quelle che non nascondono i conflitti, ma che li affrontano consapevoli che quei conflitti possono tradursi, tempo dopo, in problemi più gravi anche, a volte, di salute.
Il conflitto si sprigiona incontrollato solo se le due posizioni sono distinte, staccate l’una dall’altra. Un discorso simile vale per il rapporto di coppia e per qualsiasi altra relazione adulta.
Ogni conflitto ci insegna qualcosa di noi stessi. L’occasione si manifesta proprio nel conflitto o disaccordo che, pertanto, può essere considerato una benedizione! Se ciascuno di noi riesce ad essere consapevole che l’altro rispecchia sé stesso, sospendendo il giudizio e il rimprovero, allora vedrà sé stesso e non solo un contraddittore fastidioso. Si accorgerà, quindi, che il conflitto é prima di tutto con sé stesso, che il suo odio é verso di sé. In questo senso si parla di ritiro delle proiezioni personali sull’altro e possibilità di proiettare nulla nell’altro se non cosa ciascuno ha scelto di essere.

La buona notizia quindi c’è ! La qualità della relazione con i nostri figli, come con tutte
le altre persone che fanno parte della nostra rete, dipende da noi, da chi siamo e da cosa vogliamo.
Certamente un lavoro non sempre facile.
Ci vuole allenamento quotidiano come quando si vuole vincere una maratona!

Francesca Todeschini

Il Counselor

Il Counselor è colui che sa osservare e ascoltare, con empatica autenticità, il disagio altrui accompagnando il cliente nel percorso di conoscenza di sé e nel riconoscimento e risveglio delle risorse personali che ciascuno ha già dentro di sé.
Counseling significa consigliare ? Non propriamente. La parola counselor deriva sì dall’inglese to counsel che, letteralmente, significa consigliare, ma la matrice è quella latina. Il verbo consulere, infatti, si traduce letteralmente con ‘avere cura, prestare aiuto’, mentre tra i significati di consulo si trova ‘sollevare, alzare’. Si tratta, quindi, di un prestare aiuto in una accezione specifica: prestare aiuto insieme, affinché il cliente possa sviluppare e rinvenire dentro di sé i personali strumenti atti all’autosostenersi, per sollevarsi dalla sua condizione di conflitto o disagio, utilizzando i propri talenti e potenzialità inespressi.

Carl Rogers, negli anni cinquanta, fu il primo ad utilizzare il termine counseling per indicare una relazione cliente-professionista nella quale il cliente è assistito nelle proprie difficoltà, senza rinunciare alla libertà di scelta ed alla propria responsabilità. Scrive Rollo May, uno dei fondatori della psicologia umanistica, psicologo e counselor: “non ho mai avuto a che fare con un cliente nella cui difficoltà non abbia riconosciuto, almeno in potenza, me stesso”.
Il counselor, quindi, non è un professionista che spoglia il cliente delle sue qualità individuali, perché sa che si possono mostrare come risorse; che non rende le sue manifestazioni caratteriali patologiche e non lo medicalizza, ma collabora con lui affinché, insieme, si possa giungere ad uno stato di benessere maggiore. In altre parole, quindi, il counseling promuove il benessere del singolo e dei gruppi.
Professione riconosciuta con legge n. 4 del 14 gennaio 2013.

Francesca Todeschini